5 domande a Marianna Cento e Sabrina Rocchia

1 – Il lavoro del mediatore interculturale si basa su un rapporto fra le persone, al di là delle loro provenienze. Che peso hanno, da questo punto di vista, nel lavoro del mediatore interculturale, le competenze psicologiche?

Il lavoro del mediatore linguistico-culturale necessita di una qualifica psicologica in primo luogo perché i migranti con i quali si relaziona spesso vivono sentimenti dolorosi legati all’emigrazione dalla loro terra d’origine e alla separazione dai propri legami affettivi e sociali. Così come, per i richiedenti protezione internazionale e i rifugiati, le vittime di tratta, le giovani donne in fuga da matrimoni precoci e da FGM (Female Genital Mutilations) etc. possono emergere sintomi post traumatici nel contesto migratorio a seguito dei trattamenti inumani e degradanti e delle violenze subite al paese d’origine e durante i viaggi; ciò si verifica in particolar modo per i migranti che attraversano il deserto del Sahara in Niger e che vengono detenuti dai trafficanti nei centri libici e giungono in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo Centrale, spesso assistendo alla morte di amici e parenti nel viaggio per terra e per mare.

Pertanto è fondamentale che il mediatore sia disponibile ad accogliere la persona nella sua interezza, con la specifica sofferenza psicologica che può vivere e allo stesso tempo guardando alla stessa come portatrice di risorse e di una progettualità migratoria che necessita di essere ascoltata e compresa, sostenuta. É importante che il mediatore sviluppi una capacità empatica, di cogliere i vissuti del migrante, anche attraverso la conoscenza di come tali vissuti sono culturalmente plasmati ed espressi mediante il comportamento non verbale. Inoltre, è fondamentale che il mediatore possa fornire allo psicologo i riferimenti culturali relativi alle modalità di spiegare la sofferenza psicologica all’interno di una determinata cultura, di curarla attivando sistemi terapeutici tradizionali, di veicolarla etc.

I migranti in condizione di vulnerabilità psicologica spesso narrano attraverso i loro corpi i propri vissuti, portati sotto forma di dolori somatici (cefalea, somatizzazioni diffuse, dolori gastro-intestinali, sfoghi cutanei etc) che però non trovano un riscontro organico. Questo si verifica soprattutto in situazioni reiterate di esposizione a eventi traumatici cumulative durante i viaggi.

Qualificare in senso psicologico il lavoro del mediatore linguistico culturale significa fornire a quest’ ultimo le competenze per lavorare con lo psicologo nello svolgimento di colloqui clinici, rendendo il mediatore partecipe del senso e della direzione del percorso psicologico che si svolge. La presenza del mediatore all’interno dei colloqui e del setting psicologico può facilitare la creazione di una relazione di fiducia fra lo psicologo e il migrante (alleanza terapeutica). É altrettanto importante che psicologo e mediatore sviluppino una reciproca relazione di fiducia e una sintonia che consente loro di operare in sinergia, chiarendo in uno spazio specifico al termine del colloquio possibili “equivoci culturali” insorti e la direzione del percorso psicologico o psicoterapeutico. Nell’ottica di un lavoro di équipe multidisciplinare, quale è richiesto nella presa in carico dei migranti, è necessario che vengano riconosciute, rispettate e valorizzate le diverse professionalità e competenze, che favoriscono nella loro complementarietà una presa in carico olistica della persona.

2 – Al corso di mediazione interculturale ci si trova a contatto con persone di differenti culture per le quali la concezione della psicologia e delle sue applicazioni hanno distinte interpretazioni. Quali sono le principali differenze e come si può affrontare questa diversità riguardo alla visione della psicologia?

Nei corsi per diventare mediatore interculturale ho incontrato allievi con una buona conoscenza della psicologia poiché provenienti da Paesi in cui lo psicologo è riconosciuto come una figura di riferimento e “andare dallo psicologo” viene vissuto come assolutamente normale. Per contro, altri allievi mostravano una certa riluttanza, quasi diffidenza rispetto alla disciplina e allo psicologo stesso. Del resto la Psicologia è una scienza con meno di 140 anni di storia, quindi non stupisce che ci siano culture che siano venute poco a contatto con questa disciplina. In Italia, la figura dello psicologo, solo di recente è stata inserita dal Ministero della Salute tra le professioni sanitarie e riconosciuta come indispensabile per la salute dei cittadini. I diversi approcci alla psicologia possono essere facilmente superati insegnando sì la teoria (per lo più vissuta come molto astratta) ma cercando di renderla, attraverso le tecniche, una risorsa concreta e applicabile nel lavoro del mediatore. Nel momento in cui le teorie psicologiche diventano qualcosa di concreto, di pratico e verificabile diventa facile per tutti comprenderne l’utilità. Il corso di mediatori penso necessiti proprio di questo: poca teoria, tanta pratica. Per quei mediatori che provengono da culture d’origine nelle quali non vi è familiarità rispetto alla figura dello psicologo, perché ad esempio la salute psichica viene piuttosto affidata alla cura di figure terapeutiche tradizionali e spirituali, è importante poter rendere esplicite tali molteplici rappresentazioni della salute mentale e della sua cura. Inoltre, è necessario far emergere possibili sentimenti di diffidenza nei confronti della figura dello psicologo e fornire una spiegazione chiara del ruolo di quest’ultimo, per mettere in dialogo molteplici sistemi terapeutici e consentire al migrante di servirsene.

3 – Oggi nell’ambito della migrazione e dell’intercultura si parla molto dell’etnopsicologia. Potrebbe indicarci alcuni elementi di etnopsicologia utili per i mediatori interculturali?

Uno dei contributi più significativi dell’Etnopsicologia (definite agli albori Etnopsicoanalisi) é il metodo del complementarismo individuato dal fondatore della disciplina, Devereux, negli anni ’60 del 1900.

Il funzionamento psichico dell’essere umano è dunque, secondo Devereux, sempre articolato con le sue produzioni culturali. Il concetto di psiche e quello di cultura si intrecciano nel metodo complementarista in modo obbligatorio, ma non simultaneo, ovvero utilizzando entrambe i discorsi, dell’Antropologia e della Psicoanalisi, per articolare il senso culturale con quello individuale.

Questo significa che il funzionamento mentale è comune ai diversi esseri umani e le strutture del pensiero umano (fra le quali vi sono i sogni, i racconti, il linguaggio), hanno pari dignità per il principio della cosiddetta “universalità psichica”. Quello che cambia da una “forma di umanità ad un’altra”, sono invece le modalità di “riempire culturalmente” tali strutture del pensiero mediante rappresentazioni culturali, in base al principio della “codifica culturale”: ad es. rappresentazioni culturali riferite all’essere uomo, donna, bambino, famiglia all’interno di una determinate cultura, alla modalità di rappresentarsi il mondo, la malattia, di spiegarla e di curarla, alla nascita, alla morte, al tempo, al concetto di corpo, al cibo etc.

Il ruolo del mediatore é quello di un ponte, per chiarire aspetti relative alla “codifica culturale” e farsi portavoce dei bisogni della persona con soggetti terzi, siano questi il responsabile della struttura nella quale può essere accolto il richiedente asilo, lo psicologo, l’operatore legale, i servizi sociali, i servizi sanitari territoriali, etc. L’Etnopsicologia utilizza dunque tali concetti culturali come “leva terapeutica”, per favorire il processo psicologico della persona migrante, iscrivendola nei suoi riferimenti culturali se utile per la stessa e “meticciando”, moltiplicando le modalità di spiegare e prendersi cura della sofferenza psichica.

Un altro principio mutuato dall’etnopsicologia, che può essere utile per la figura del mediatore, è quello dell’analisi dell’“alterità in sé”, ovvero del proprio vissuto in relazione all’ “alterità” incarnata dalla persona migrante. Quest’ultima, per esempio, potrebbe essere arabofona e musulmana ma non appartenente allo stesso paese d’origine del mediatore e per questo suscitare nello stesso reazioni emotive determinate da tale alterità che possono essere agite nella relazione, qualora il mediatore non ne sia consapevole. Anche per il mediatore è importante imparare a “decentrarsi”, prendere distanza talvolta dai propri riferimenti culturali, religiosi specifici per poter accogliere al meglio il migrante ed essere flessibile nel restituire la sua narrazione ai diversi terzi che si relazionano con lui.

4 – Quali sono le evoluzioni più significative di un allievo del corso di mediazione interculturale dall’inizio alla conclusione del suo percorso di formazione circa l’elaborazione del proprio percorso migratorio?

Il corso impegna l’allievo per circa un anno scolastico con lezioni frontali, laboratori, narrazioni, lavori di gruppo e tirocinio. Per tutti (insegnanti compresi) è un percorso di crescita e cambiamento dove il futuro mediatore impara soprattutto a “decentrarsi” e a prendere coscienza che la propria visione del mondo non è condivisa da tutti e che si può trovare nella società una diversità di idee e atteggiamenti. Durante il corso ogni allievo ha anche l’opportunità di conoscere i compagni, che per lo più appartengono a nazioni e culture diverse, di confrontarsi con loro rispetto alla storia personale, alla capacità di fare fronte ai problemi incontrati vivendo in una nuova cultura. Spesso ci sono stati anche scontri dovuti a visioni e approcci differenti. La possibilità di ampliare le proprie conoscenze, di confrontarsi con persone con esperienze simili alle loro ma diverse nei modi di affrontarle ha sicuramente migliorato la capacità di essere flessibili, di rispettare gli altri e quindi anche di accettare meglio se stessi. Inoltre poter narrare la propria storia a persone che ti ascoltano e hanno rispetto per ciò che stai dicendo, può essere d’aiuto per elaborare i propri vissuti e migliorare il proprio benessere e la propria capacità di adattamento.

5 – Quale sua esperienza di insegnamento o pratica ha sperimentato avere una ricaduta positiva sulla formazione dei mediatori? Come vede la futura evoluzione di questa professione?

Questa domanda mi permette di approfondire il concetto che ho espresso prima, rispetto alla necessità/opportunità degli allievi di avere in mano strumenti psicologici concreti e non solo interessanti teorie psicologiche da sapere per il buon esito dell’esame.

Come insegnante, ma soprattutto come psicologa, ritengo che ogni persona che abbia a che fare nel suo lavoro con altre persone che hanno dei bisogni, debba prima di tutto conoscere meglio se stesso e in particolare in questo caso, la propria comunicazione non verbale, la propria capacità di ascoltare senza pregiudizi e il proprio stile di comportamento. Questo è possibile ottenerlo attraverso una metodologia didattica che comprenda una prima parte in cui con lezioni frontali l’allievo apprende i concetti generali, una seconda parte in cui gli allievi, tra loro, fanno esperienza utilizzando ad esempio tecniche come il role playing e una terza parte in cui durante il tirocinio l’allievo fa pratica dei concetti appresi dal punto di vista teorico e esperienziale. Quest’ultima parte è particolarmente importante perché l’allievo può verificare l’effettivo apprendimento, nonché notare, attraverso il confronto con i compagni e l’insegnante, i propri miglioramenti, i propri punti di forza e le difficoltà che ancora devono essere affrontate e superate. Questo procedimento permette al futuro mediatore di conoscersi e sperimentarsi, di aprirsi a nuove modalità relazionali e comunicative e sperimentare l’efficacia delle tecniche apprese. L’acquisizione di conoscenze in merito alle vulnerabilità psicologiche dei migranti e all’impatto di eventi traumatici cumulativi sulle traiettorie identitarie delle persone, contribuisce inoltre a sensibilizzare il mediatore e a facilitare un invio precoce allo psicologo che opera nella struttura di accoglienza e ai servizi territoriali di salute mentale, tutelandone la salute mentale ed evitando la cronicizzazione di quadri clinici post-traumatici.

Per quanto riguarda l’ambito della salute mentale e del disagio psichico, immagino il futuro della professione del mediatore con un inserimento maggiormente strutturato e istituzionalizzato all’interno dei servizi del SSN, per facilitare l’accesso dei migranti a percorsi di diagnosi, cura, abilitazione e riabilitazione all’interno dei servizi già esistenti per tutti i cittadini. In parallelo si rende necessario una maggior presenza all’interno del sistema di accoglienza, dai porti di sbarco, all’arrivo in frontiera o tramite corridoi umanitari, alle strutture di prima e seconda accoglienza, per facilitare, nel lavoro multiprofessionale con lo psicologo, l’individuazione delle vulnerabilità e l’invio ai servizi di salute mentale di Sistema Sanitario Nazionale.

Marianna Cento – psicologa, psicoterapeuta, ha lavorato in Sicilia per l’Ass.ne Terres des Hommes nell’accoglienza dei migranti che raggiungono l’Italia via mare, attualmente referente immigrazione della Caritas di Cuneo
Sabrina Rocchia – psicologa impegnata nell’ass.ne Psicologi per i popoli, formatrice al corso di mediazione interculturale (Enaip Cuneo)