5 domande a Sara Belleni Morante
Alexandra (presidente S.M.I.):
Ci siamo conosciute in un contesto particolare: la Summer School a Prà Catinat. Per la prima volta ho partecipato ad un momento di forte condivisione e confronto a livello regionale sulle tematiche che affronta la mediazione interculturale.
1 – Perché organizzare in questi tempi un incontro di questo tipo?
Oggi più che mai, in un mondo governato dai social networks, un mondo in cui le posizioni sembrano destinate ad estremizzarsi, confinate nella propria visione, il passo di mettersi nei panni del nostro ” altro” diventa ancora più fondamentale. La mediazione è questo, non solo capire le parole, ma anche mettersi nei panni di quell’”altro” che fa paura per antonomasia, in quanto diverso da quanto conosciamo.
La mancanza di mediazione caratterizza il nostro tempo: diventa cruciale parlarne per riportarla al centro della riflessione pubblica.
2 – Quale è stato per lei il primo “incontro” con la mediazione interculturale? Ricorda un episodio che può descrivere brevemente?
Prima di lavorare in Darfur, avevo già vissuto in altri paesi, ma ero sempre stata attorniata da colleghi con cui potevo comunicare direttamente. In Darfur invece, per la prima volta, ho dovuto confidare completamente nei colleghi per dare un senso a ciò che avevo intorno. Nella città di Al fasher, ad una riunione con i capi quartiere prima di una distribuzione di beni prevista nel periodo del Digiuno, uno dei pilastri dell’Islam, stavo per rivolgermi ad una platea un po’ ostica per una donna occidentale senza velo. Mi apprestavo a dire “visto che durante il Ramadan ci si può riposare, vi ringrazio comunque per essere venuti”: avevo visto, nelle ore più calde del giorno, persone che si riposavano sotto gli alberi striminziti.
Il collega mediatore mi appoggia saggiamente una mano sulla spalla “no, attenzione, quello del Digiuno è un periodo con tante cose da organizzare, super occupato”. Cambio il mio discorso: “grazie per essere venuti, grazie per la vostra volontà di aiutarci, nonostante il Ramadan e le tantissime cose da fare”. Mormorio di approvazione: il mio collega (Ahmed detto El Hadi, il calmo) aveva salvato me e la distribuzione: chi mi avrebbe ascoltato dopo una immagine opposta alla percezione del Digiuno? La mediazione mi ha salvato. Ed è stata solo la prima delle tante volte.
3 – Quali sono gli aspetti della mediazione interculturale che, all’interno del suo contesto professionale, ritiene più significativi?
Il fatto di dover comprendere che ogni persona è una cipolla, fatta da tanti strati, è un aspetto con cui devo continuamente confrontarmi quando ricevo un ospite dei centri di accoglienza. Ridurre una persona alla sua cultura di appartenenza è sempre un errore: una persona è certo la sua cultura, ma porta in sé l’ambiente della sua crescita, gli amici, gli incontri, gli studi, le esperienze: di certo non ci piacerebbe che qualcuno ci attribuisse uno spirito da mandolino solo per il fatto di avere un passaporto italiano.
Per me avvicinarsi alla mediazione significa anche, prima di ogni incontro, concentrarmi sugli aspetti sensibili (per me le questioni connesse con il genere ed il ruolo della donna in società patriarcali) ed i pregiudizi, al fine di aprire ad un reale confronto aperto.
Il mio rimpianto è sempre quello di non avere tempo. Cerco di rimediare alla mancanza di tempo discutendo con il mediatore prima di ogni colloquio, per definire insieme come rapportarsi a chi riceviamo.
4 – Rispetto a quando in passato ha lavorato con i mediatori interculturali, ha riscontrato un’evoluzione della professione?
Sono un po’ in difficoltà a rispondere a questa domanda: ho iniziato a lavorare in paesi in cui i colleghi fungevano da mediatori, pur senza una specifica preparazione.
Di ritorno in Italia ho lavorato nelle Commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, dove si chiedeva al mediatore di limitarsi all’interpretazione, per ridurre il carico personale di condanna da parte della comunità di origine un caso di decisione negativa dell’organo dello stato.
Il mio rapporto con la mediazione in senso proprio nel territorio di Torino inizia nel 2021, quindi non sono in grado di fornire una risposta quanto alla sua evoluzione.
5 – Quali azioni e strategie immaginate, per il futuro, aventi come obiettivo un inserimento più strutturato della mediazione all’interno dei servizi, a livello regionale, dopo le considerazioni espresse alla Summer School?
Nel progetto FAMI ERMES, sul quale è stata finanziata la Summer School, abbiamo inserito un numero consistente di ore di mediazione, con lo spirito di abituare i servizi territoriali alla presenza e alla necessità di mediatori.
Con progettualità seguenti si cercherà di proseguire il percorso: lo spirito della Summer School di giugno 2023 è proprio questo. Si tratta di andare verso una Mediazione di equipe, un ideale cui devono tenere tutti i membri del gruppo.
Sarebbe utile scaricare sul mediatore tutto il peso della mediazione, chiedendogli di “operare il miracolo “.
Per me è stata una delle conquiste della Summer school il fatto di comprendere il concetto di mediazione sociale come movimento cui deve tendere l’equipe multidisciplinare.