“Diario di una buonista” di Marianna Cento

Marianna Cento – psicologa, psicoterapeuta, ha lavorato in Sicilia per l’Ass.ne Terres des Hommes nell’accoglienza dei migranti che raggiungono l’Italia via mare.

1 – Il tuo libro percorre il tuo viaggio che per lavoro ti ha portato in Sicilia. Quest’esperienza ti ha permesso di conoscere ed approfondire diverse e (magari) nuove sfumature della tua professione. Se dovessi parlare di una in particolar modo quale sceglieresti?

Vi ringrazio molto, come Associazione Spazio Mediazione &Intercultura, per la preziosa opportunità di condivisione e per le stimolanti domande proposte, che mi hanno dato l’occasione di fermarmi a riflettere.
L’operare in Sicilia nei contesti di sbarco e di prima accoglienza dei richiedenti asilo mi ha permesso di sviluppare in primis un’attenzione e una cura per i bisogni primari delle persone, fisiologici (di cibo e acqua, sonno e riposo, igienici, caldo e freddo), di appartenenza e relazionali (mantenere legami famigliari, legami amicali diventati come “di sangue” nella condivisione del viaggio attraverso la Libia e la rotta del Mediterraneo Centrale), spirituali. Un aspetto, questo, che è stato utile integrare nella professione di psicoterapeuta, nello svolgimento dei colloqui etnopsicologici con il mediatore linguistico-culturale. Nell’incontro con le famiglie allargate, con i Minori Stranieri Non Accompagnati, con le mamme sole con bambini, con le donne in gravidanza, ho imparato ad essere presente nel silenzio, con un sorriso, con lo sguardo, con un gesto di vicinanza rispettosa del dolore e del terrore che oscuravano i loro volti e parlavano nella contrazione dei corpi durante uno sbarco. Forse il dono più prezioso che custodisco dell’esperienza umana e professionale vissuta negli anni trascorsi a Pozzallo è proprio l’aver appreso ad essere una presenza incarnata; ho imparato ad ascoltare e a fidarmi delle mie emozioni e percezioni affettive rispetto all’ “altro”, alle persone e ai gruppi di Minori Stranieri Non Accompagnati per essere lì con loro. Ad affinare la mia bussola affettiva, lasciandomi guidare da sensazioni, emozioni e percezioni nell’orientare il mio agire professionale al loro fianco, nel rispetto dei limiti e delle potenzialità dei contesti di accoglienza. Ho fatto esperienza del contenere con la presenza il dolore e la solitudine estremi vissuti durante esperienze reiterate di torture e violenze, conservando un barlume di speranza anche per loro, per sostenerli a concluderle ed integrarle. Ho imparato a farmi sostenere da terzi per non essere sola e sopraffatta da un carico emotivo che è troppo per essere contenuto da un solo corpo, attraversoil lavoro di équipe, spazi di supervisione e nutrendomi delle letture dei miei maestri (Eugenio Borgna e Gianni Francesetti).

Fotografia scattata da Alessia Mezzavilla presso la banchina di Pozzallo, un migrante bacia la terra in segno di gratitudine

2 – Il lavoro d’èquipe si è mostrato, anche in questo caso, una modalità opportuna nell’accoglienza delle persone che dovevate assistere. Immagino sia stato importante il lavoro in un team multidisciplinare anche per voi come professionisti. A questo proposito “la danza a tre” colpisce subito nel tuo racconto… Com’è stato danzare a tre?

Danzare a tre è stato un viaggio arricchente, costruito passo dopo passo, instaurando una relazione di fiducia non solo con le persone e i gruppi di Minori Stranieri Non Accompagnati che incontravamo, ma anche fra di noi, con la sociologa e la mediatrice linguistico culturale arabofona. Una fiducia che è necessario rinsaldare giorno dopo giorno, intessuta di sguardi d’intesa, di stima reciproca, di una sensibilità rispetto ai minori che è diventata comune e di una metodologia di lavoro che abbiamo consolidato nel tempo e condiviso in équipe, porosa ai dubbi, alle riflessioni e alle rivisitazioni vitali.

3 – Un passaggio che mi ha incuriosito è quello della memoria migrante. Quanto può incidere e che impatto può avere la memoria di alcuni episodi sulla vita post migrazione?

Mi interesserebbe molto poter comprendere in modo più preciso il significato che viene da te attribuito al concetto di “memoria migrante”, sento il rischio di perdere preziose sfumature semantiche.
Provo comunque a rispondere, aprendo con una nota di speranza: la memoria migrante di alcuni episodi di vita quotidiana nel paese d’origine, di esperienze sensoriali, di appartenenze, sapori, odori, legami con il mondo visibile e invisibile, può essere una preziosa risorsa che sostiene un processo di continuità identitaria durante i percorsi etnopsicologici. Una risorsa preziosa dinnanzi a memorie migranti di episodi di violenza fisica e sessuale, maltrattamenti, torture, perdite a seguito di naufragi, vissute durante il percorso migratorio e che possono contribuire a creare una dolorosa rottura nella persona anche nella vita post migrazione. La tortura è un’esperienza di annientamento dell’essere umano, un atto di spogliazione rispetto alle sue appartenenze culturali, un’apertura nel nucleo essenziale di costruzione culturale della persona per lasciarla deliberatamente aperta, fragile, vulnerabile e indebolita. Il processo inverso del prendersi cura è animato dal desiderio di portare una presenza in quella solitudine estrema vissuta e dal ri-conoscere il processo antropopoietico che ha plasmato quello specifico essere umano nelle sue appartenenze culturali, uomo, donna, minore. In questo senso le memorie di episodi di vita che raccontano chi era la persona al paese d’origine, quali erano le sue appartenenze identitarie, che posto occupava nella famiglia e nella società, giocano un ruolo fondamentale nel riannodare fili di umanità e nel richiudere la persona e concludere esperienze di violenza.

4 – “Per adesso però, ciò che si può fare, nei limiti temporali dell’intervento (circa 45 min), è fornire loro una prima accoglienza. Cerco di portare un contatto discreto, incarnato nel mio corpo, una presenza: uno sguardo, un sorriso, un tocco sulla spalla della donna guineana che possa giungere laddove le parole non arrivano, rispettoso di una differenza culturale. Li copro con la coperta e li lascio riposare.” Anche come mediatori interculturali capita di fare silenzio con le persone per cui siamo chiamati. Che consigli o condivisioni potresti dare a riguardo?

Mi viene da rispondere con le parole di Chandra Livia Candiani: “Il silenzio è un po’ come la luce, bisogna affinare i sensi per accorgersi di quante diverse sfumature di luce in una giornata incontriamo. E’ così per il silenzio. Ogni silenzio dice qualcosa. Nello stesso tempo, il silenzio è solo silenzio. Non esiste il silenzio mio o tuo. Fare silenzio insieme è una profondissima comunione”.
Il silenzio è cosa viva, Einaudi, Torino, 2018, pag. 22.

L’invito che mi sentirei di condividere con i mediatori linguistico-culturali è quello di darsi il tempo per sostare nel silenzio, per assaporarlo e per provare a coglierne le diverse sfumature emotive e di significato culturale. Ci sono certi silenzi, durante i colloqui etnopsicologici danzati a tre con il mediatore linguistico-culturale, in cui è centrale il ruolo del mediatore nel cogliere possibili aspetti di vergogna e di imbarazzo quando si toccano, per esempio, tabù culturali, come può accedere nel caso di abusi sessuali subiti. Il mediatore può cogliere tali sfumature culturali di significato, per comunicarle all’etnopsicologo in modo tale che si possa continuare a danzare a tre in una modalità implicita, dicendo senza dire, anche solo accennando, ma rispettosi di un tabù culturale e nello stesso tempo lasciando intuire che si è compreso, che è possibile uscire dalla solitudine. Così come ci sono silenzi di comunione profonda, che comunicano un senso di pienezza, altri che chiedono un bisogno di fermarsi per decantare e poter darsi il tempo per assimilare le esperienze vissute.
Per rimanere nella metafora del silenzio che è “un po’ come la luce”, condivido un’immagine che mi è affiorata alla consapevolezza mentre scrivo, apportando una nota creativa che lascia spazio alla libera interpretazione. La luce è data dalla somma di tutti i colori, li contiene tutti. Il mio invito ai mediatori, così come ai colleghi psicoterapeuti perché la danza è sempre a tre, può essere quello di provare ad assegnare un colore prevalente al silenzio che si sperimenta in un dato momento con la persona, lasciarsi attraversare dal silenzio, sentirlo risuonare dentro (per chi è stato costruito culturalmente con una rappresentazione del dentro, forse il mio invito è troppo etnocentrico) e risuonare con quella sfumatura. Per poi poterla condividere con lo psicoterapeuta nella danza a tre, se occorre dare parola.

5 – C’è stato un episodio inedito, bello e/o inaspettato che ti è capitato durante gli anni di lavoro in Sicilia che ti ha cambiato come professionista?

L’incontro con i bambini, i tanti incontri, sono fra gli episodi più belli per me. Ho scritto di Eyoel nel libro, nome fittizio così come quello di Aminata, un bambino eritreo di 5 anni che era privo di forze, malato e disperato quando ho incrociato per la prima volta il suo sguardo. Nel giro di pochi giorni le cure mediche, il conforto di una parente, la presenza costante, l’hanno portato ad “arricriarsi”, come si dice in siciliano, a rinascere. Elaborava dei manufatti tridimensionali con la plastilina, luminosi, colorati e traboccanti di vita, utilizzando i fogli da disegno come base per installare le sue creazioni. Ricordo Aminata, una bambina ivoriana che si sentiva sperduta presso l’Hotspot di Pozzallo, aveva perso il riferimento di casa sua e ne aveva nostalgia. Ci siamo adoperate insieme per ricreare un suo angolino di casa nell’Hotspot, personalizzare con un disegno il suo letto, ricreare appartenenza, “un angolino di casa”. Serbo nel cuore i disegni di cinque Minori Stranieri Non Accompagnati egiziani, dagli undici ai tredici anni, superstiti di naufragio, che si erano legati come fratelli di sangue durante il viaggio. Avevano imparato a proteggersi e trasmettevano la forza dell’appartenenza al gruppo. Uno di loro aveva disegnato una mano, fiorita e per raccontarcelo ci aveva detto: “ho disegnato noi cinque perché siamo cinque, come le dita di una sola mano, unita”. Scoprire e sperimentare la vitalità delle loro risorse, ancora più visibili nei bambini e nei ragazzi, con tempi più rapidi di recupero e assimilazione rispetto agli adulti, mi ha insegnato l’importanza di riconoscerle come professionista e di sostenerle: risorse comunitarie, creative, artistiche (canzoni, disegni, giochi, narrazioni orali e scritte), spirituali, di contatto con la natura e con me e con la nostra équipe come esseri umani. Custodire la fiducia nelle risorse delle persone e dei gruppi, delle comunità, ha alimentato in me e mi ha permesso di mantenere viva una scintilla di speranza, anche quando percorrevamo insieme territori di disperazione e bui. Un altro dono bellissimo, più personale, è stata la riscoperta delle mie radici, una storia che si intreccia con le storie dei migranti, che si dipana attraverso il libro e affiora lentamente alla superficie. L’incontro con l’altro mi ha portato a riscoprire qualcosa in più di chi sono e da dove vengo, a pormi interrogativi esistenziali,come un buon cammino dal sapore un po’ filosofico.

Fotografia scattata da Alessia Mezzavilla presso la banchina di Pozzallo, il cimitero delle barche di Pozzallo